D’altra parte e malgrado tutto restano, nel comune modo di pensare, ancora il carcere e la richiesta di pene più severe gli unici orizzonti della giustizia.

Faro

Nonostante la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, malgrado la Costituzione italiana, malgrado i nuovi indirizzi dell’Europa in materia di giustizia e di pena, dove sempre viene ribadita l’esigenza di superarne la durezza e la disumanizzazione per orientare l’accertamento delle responsabilità e il ripristino della legalità verso una direzione di recupero del reo al contesto sociale e culturale della comunità, senza che la  personalità dell’individuo possa averne menomazione e detrimento, malgrado tutto, nel comune modo di pensare vi è ancora una forte resistenza nei confronti di un sistema giudiziario non retributivo e non restitutorio e una continua richiesta di pene più severe, dove il carcere viene posto sempre e comunque come luogo dove tutto si risolve. L’amnistia, l’indulto, la grazia, per quanto siano il frutto di antichi retaggi legati alle graziose concessioni dei sovrani, non vengono colti nella loro natura di sviluppo della rottura del rapporto retributivo tra reato e sanzione, ma vengono guardate con palese avversione, peraltro in tempi dove il sovraffollamento carcerario e le condizioni detentive appaiono fortemente pregiudizievoli di ogni confine teso a salvaguardare la dignità umana. Se consideriamo il fatto che l’ordinamento penitenziario è stato rivisto nel 1975, che il Codice di Procedura Penale varato nel periodo fascista è stato rivisto nel 1988 e che il Codice Penale è lo stesso di quegli anni, ma soprattutto che l’impianto strutturale di questi importanti pilastri del sistema giudiziario italiano resta quello della giustizia retributiva, punitiva e autoritaria, non viene difficile denunciare il forte ritardo politico e culturale della giustizia italiana rispetto ai forti mutamenti sociali intervenuti nel Paese e nel mondo, e non viene neanche facile sperare che si possa andare in tempi brevi verso svolte significative contrarie ad un inasprimento regolativo quale risposta principe alla trasgressione.

All’interno di queste considerazioni, ciò che maggiormente suscita inquietudine è il senso diffuso di una cultura pubblica, con i suoi riverberi pedagogici individuali e privati, che attribuisce al carcere una funzione salvifica rispetto al male dilagante nella società e che pertanto va reso ancora più “duro” e lesivo della dignità umana, in una comune assunzione che il reo, colui che ha trasgredito, colui che ha sbagliato, non sia un “uomo” e non abbia alcun diritto al pari dei suoi simili. Senza considerare che la deprivazione del movimento e l’inedia che pervade i tanti che si trovano negli istituti di detenzione sono una condizione da anticamera della morte fisica e di piena morte spirituale.

Certo è che circa il 68% delle persone che sono state detenute commettono nuovamente delitti dopo la loro liberazione, in un Paese dove si spendono cifre enormi – in una logica che privilegia la repressione e la retribuzione, rispetto ad una cultura di pene alternative e di prevenzione- per la creazione di nuove strutture di detenzione e di nuovi “posti-detenuto” destinati ad accogliere indistintamente chi ha rubato per fame e chi ha violato la legge spinto da una situazione estrema contingente.

Per di più un problema etico si pone quando il sistema mediatico, nelle sue narrazioni, è tutto ripiegato sull’ipotesi accusatoria. Da ciò diventano illuminanti le parole della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 7 giugno 2007 con cui si dice  che  << La stampa gioca un ruolo preminente in una società democratica: se essa non deve superare certi limiti, riferiti soprattutto alla protezione della reputazione e ai diritti altrui, così come alla necessità di impedire la divulgazione di informazioni riservate, su di essa incombe nondimeno di comunicare, nel rispetto dei suoi doveri e delle sue responsabilità, le informazioni e le opinioni su tutte le questioni di interesse generale >>. Un uso moralmente responsabile del mezzo comunicativo dovrebbe allora farsi carico di costruire un’opinione pubblica non con fini emotivo-spettacolari ad uso strumentale di questa o di quella congiuntura politica o ad usi di mercato e di audience pubblicitari, ma con scopi autenticamente partecipativi che si leghino alla costruzione di un sistema sociale e comunitario che tenga conto dei suoi valori di solidarietà e di rispetto delle varie componenti e dei vari ruoli, nonché della dignità degli individui che lo costituiscono. Valori che stanno alla base della democrazia moderna e dei sistemi politici e sociali che si reggono sui fondamenti delle democrazie liberali e partecipative. Una selezione e uno stravolgimento mediatico del crimine e, dunque, di una corretta dinamica costruttiva del suo racconto giornalistico, televisivo, in una parola, la sua spettacolarizzazione, che funge da dilatazione e aumento della realtà, per stare ad una delle dinamiche più diffuse, impedisce, da una parte, di comprendere e dunque di avere un’opinione autentica, e dall’altra si pone come ostacolo alla ricerca di possibili soluzioni normative e politiche che possano sottrarre il sistema penitenziario e più in generale il sistema giuridico, la cultura e il governo della giustizia, ad un crinale che non sia di emergenza e di allarme sociale; quel crinale su cui scivola la sfiducia dei cittadini rispetto allo Stato, e la richiesta impaurita di una sicurezza giocata sulla repressione e sulla severità della pena.

I processi, specialmente quelli legati alla politica, o anche quelli legati a grandi vicende di omicidi come quelli di Garlasco, Cogne, Erba, ed altri che in questi anni hanno affollato le cronache giudiziarie, sembrano aver perso, dentro la grande tramoggia mediatica, la loro natura fattuale. Scompaiono l’inizio e la fine della vicenda, mentre resta il suo clamore nutrito dall’enfasi di un racconto che ha rimodulato, se non stravolto, la realtà dei fatti, e resta il dito accusatore puntato sui presunti rei condannati dall’opinione pubblica prima di ogni indagine, prima del processo, la cui fine diventa persino irrilevante.

Bastò un’accusa nell’Atene del quarto secolo a.C. per portare Socrate alla condanna a morte da parte dei giudici della sua città. Come ci ha tramandato Platone, era il segno di una crisi irreversibile della civiltà democratica e della civiltà del diritto proprio quando sembrava che avessero raggiunto l’apice, l’età aurea della loro difficile affermazione.

 

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